COMUNICATO STAMPA

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23/02/2010

Roma, 23 febbraio 2010 - Palazzo Rospigliosi

Accompagnare dalla pena al lavoro

Integrazione delle politiche di inclusione a livello locale, nazionale, comunitario


Parlare di pena e lavoro significa impostare il discorso sia sul piano dell’accesso al lavoro per le persone in espiazione della pena che su quello delle possibilità e opportunità e degli impedimenti all’inserimento lavorativo di persone provenienti da misure penali. C’è ovviamente un forte intreccio tra i due piani: le opportunità di lavoro che una persona detenuta può fruire all’interno del carcere o nell’espiazione esterna della pena sono collegate. Nelle intenzioni del legislatore il lavoro penitenziario è finalizzato a preparare e ad aprire la strada per una attività lavorativa all’esterno, ma la scarsità di opportunità lavorative previste per le persone detenute e la loro poco spendibile qualificazione, a parte le poche eccellenze offerte da alcuni istituti, ha di fatto impedito il raggiungimento di questi obiettivi.
Nelle carceri i detenuti che lavorano sono una quota minima delle persone recluse, e sono prevalentemente impiegati nei cosiddetti lavori domestici, funzionali al mantenimento ed al funzionamento dell’istituto. Tali attività non permettono al soggetto di conseguire alcune specificità professionale spendibile sul mercato esterno.
Con l’Ordinamento penitenziario del ‘75 il lavoro assume la connotazione di elemento del trattamento penitenziario, dovendo peraltro essere assicurato al condannato e all’internato, salvo casi di impossibilità. L’esigenza di una organizzazione del lavoro penitenziario che rifletta, nelle sue modalità, il lavoro libero, si pone in aderenza con i principi della costituzione.
Nonostante le leggi emanate su questo argomento, finalizzate ad aprire nuove possibilità del lavoro per i soggetti detenuti ( in particolare la Legge Smuraglia) gli obiettivi del legislatore sono quindi rimasti per lo più irrealizzati. Tra gli effetti auspicati di questa legge vi era anche l’incremento delle possibilità di lavorazione per conto terzi all’interno del carcere favorita da una nuova convenienza, da parte delle aziende o della cooperazione sociale, a portare lavoro all’interno dell’istituzione penitenziaria. Pur essendo stata approvata in concomitanza dell’emanazione del nuovo regolamento di esecuzione penitenziaria, che si poneva l’obiettivo di incrementare gli spazi di praticabilità di lavoro nell’istituto, non si può dire che, a parte qualche piccolo segnale di cambiamento, l’approvazione della legge abbia comportato i necessari cambiamenti auspicati.

Siamo consapevoli del difficile mare in cui navighiamo, sia per l’attuale ardua contingenza economica diffusa ma soprattutto per lo stigma che accompagna questa tipologia di persone.
Poichè l’esclusione, però, non è un destino immodificabile, è doveroso contrastare gli elementi di vulnerabilità per impedire la sorte di emarginazione produttiva di queste persone e, insieme, agire in contrasto all’istituzionalizzazione della marginalità che la trasforma in esclusione definitiva dai processi sociali.
Il criterio di qualità sociale è costituito dalla capacità di ridurre e riparare fratture e barriere, di creare ponti di vita quotidiana nei luoghi dove non c’è qualità ma deprivazione, invalidazione. Si può delineare così un importante criterio di qualità sociale: la crescita delle capacità di azioni e di scelta per la rimozione delle barriere di cui parla anche la Costituzione. Questo criterio riconosce e misura la qualità sociale sul registro della giustizia sociale ed vigila affinchè la cittadinanza non si costruisca per esclusione.
In questo senso si è mossa la Commissione Nazionale Consultiva e di Coordinamento per i rapporti con le Regioni, gli Enti Locali ed il Volontariato, che ha emanato, nel marzo 2008, le “Linee Guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria”, individuando nel “Patto di inclusione sociale” lo strumento utile a programmare, secondo la legge 328/00, interventi finalizzati alla promozione di possibilità di sviluppo delle persone, in particolare di quelle in difficoltà, tra le quali sono citate espressamente le persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, chiamando in causa gli Enti Locali, le Regioni e lo Stato, in sinergia con il Volontariato ed il Terzo Settore (documento da cui anche il materiale di “Italia Lavoro” trae ispirazione).
Nel patto per l’inclusione viene dato particolare risalto al ruolo del terzo settore e al volontariato quale espressione del capitale sociale dei territori di appartenenza. Come volontariato riteniamo che queste importanti Linee Guida non siano state sufficientemente valorizzate ed applicate. Il percorso che si dovrebbe realizzare è quello di un patto politico a livello nazionale tra Stato, Regioni, Enti Locali, comunità civile, volontariato e settore produttivo, finalizzato a favorire lo sviluppo di una rete integrata ed estesa nel territorio nazionale di percorsi di inclusione sociale delle persone entrate nel circuito penale. Non ci risulta però che ogni ambito regionale abbia realizzato delibere in questo senso. Tra le esperienze conosciute possiamo citare l’esempio virtuoso della Regione Lombardia che, nel maggio 2009, ha deliberato, con una cospicua copertura economica, un piano di intervento per la promozione e sviluppo di una rete a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. D’altronde, gli investimenti economici necessari non dovrebbero essere considerati un aggravio di costi per la collettività, ma al contrario, nei tempi lunghi, rappresentare un investimento produttivo in termini di sicurezza sociale.
Si tratta quindi di attualizzare e di concretizzare su tutto il territorio tali linee guida, che offrono un modello di “governance” che nega la “centralità” del carcere come unica forma di pena, afferma l’importanza dello sviluppo delle misure alternative, riconosce la necessità dell’integrazione, nei rispettivi ruoli, tra Ministero della Giustizia, Regioni, Enti Locali, Servizi Territoriali e società civile, offre le modalità per stabilire un piano organico e stabile, adeguato alle necessità locali, uscendo finalmente dal rincorrere di volta in volta l’emergenza che si presenta. Esse costituiscono una solenne dichiarazione d’intenti e d’impegno “bipartisan”, costruita con il contributo di tutte le sedi politiche, culturali, amministrative e operative più impegnate nel settore e come tale va fatta conoscere ed attuare a tutti i livelli.
La strada tracciata da questo documento va nella direzione necessaria della trasformazione definitiva di un costo assistenziale molto consistente, quale quello sostenuto per la popolazione detenuta, in risorsa a disposizione della collettività, nello spirito delle recenti riforme del welfare e del principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione.
Ma non può restare solo una dichiarazione di principi: è necessario quindi avviare, a livello nazionale e regionale appositi gruppi di monitoraggio e di coordinamento che secondo i bisogni e le risorse locali programmino e realizzino gli interventi sopra descritti.
A tal fine, il volontariato ha richiesto, ormai da più di un anno, la convocazione della commissione, in relazione al vertiginoso aumento della popolazione detenuta negli istituti. la richiesta è stata rivolta al Coordinamento delle Regioni e all’ANCI. Tali soggetti si sono immediatamente attivati presso il Ministero della Giustizia, titolare della convocazione, ma nessuna risposta dal Ministero è mai arrivata. Il Volontariato ha quindi coinvolto l’Ufficio per i rapporti con le Regioni, gli Enti Locali e il Volontariato richiedendo la riunione del “Gruppo Tecnico per le Politiche Sociali” per ridefinire le modalità operative utili all’attuazione delle “Linee Guida” al fine di contribuire a organizzare al meglio le risorse territoriali essenziali ad affrontare “l’emergenza carceri” e quindi di offrire un sostegno alla realizzazione del “Piano carceri” per la parte relativa alle proposte di messa alla prova e di detenzione domiciliare per l’ultimo anno di detenzione. La convocazione si rende necessaria, a parere di questa Conferenza, per avviare una riunione a livello tecnico dei rappresentanti regionali che chiarisca nel dettaglio l’organizzazione e la modalità di reperimento e di coordinamento delle risorse territoriali (ASI, Servizi Socio-sanitari territoriali, Volontariato e società civile) in modo da porre a disposizione della Magistratura indicazioni precise, mirate ai bisogni delle persone entrate nel circuito penitenziario e possibili fruitori di misure alternative, favorendo in tal modo, nei limiti del possibile, lo sfollamento degli istituti.
La definizione di tali dettagli organizzativi appare urgente per dare attuazione alle “ Linee Guida” che, altrimenti, rischiano di rimanere al solo livello di enunciato programmatorio di carattere necessariamente generale.
L’approvazione dell’indulto poteva essere una occasione per creare soluzioni diverse, sia sul piano legislativo che organizzativo dell’esecuzione penale. Solo una cifra minima proveniente dalla Cassa delle Ammende è stata invece messa a disposizione per far fronte all’emergenza derivata dalle scarcerazioni. Andava invece realizzato un forte investimento sul versante lavorativo, finalizzato a potenziare le esperienze preesistenti ed a creare nuove e vere possibilità di lavoro in una prospettiva di piano stabile anche per il futuro, al fine di favorire il più possibile la realizzazione di percorsi alternativi al carcere, in una dimensione di progettualità del percorso riabilitativo che renda protagonisti i soggetti anche sul versante lavorativo. È infatti evidente la frattura costituita tra il mondo del lavoro e quello dell’assistenza, e l’immenso spreco di risorse umane ed economiche che questa frattura comporta. La frattura tra mercato del lavoro e assistenza può rompersi con l’alleanza degli imprenditori cominciando a modificare pratiche del mondo dell’assistenza. Andrebbe pertanto rovesciata la cultura di alcuni servizi dediti al sostegno della persona per favorire la creazione di cooperative e servizi pubblici, come spazi da investire per mobilizzare energie anche residuali, per mobilitare quelle risorse umane paralizzate negli istituti. Il carcere passivizza invece che valorizzare, attivare, responsabilizzare. Diversamente, continuerà a gravare sul carcere e sulla post-detenzione il circolo vizioso che ha posto e pone detenuti ed ex detenuti ai margini dell’attività produttiva e della società, con forte rischio di reiterazione dei reati commessi.
Il detenuto deve essere avviato al lavoro non solo per sottrarlo all’ozio avvilente, quanto perché il lavoro è un dovere sociale, è un diritto costituzionale, un essenziale strumento di rieducazione e di reinserimento, con notevoli vantaggi anche di ordine psicologico e sociale.
La vulnerabilità ( di molti soggetti, non solo delle persone in esecuzione penale) è il terreno centrale della questione sociale oggi. Rafforzare il lavoro significa investire sulla sicurezza, sulla stabilità, contrastare la recidiva. Quest’ultimo è un punto decisivo: la recidiva e i relativi costi. Si calcola che la diminuzione di un solo punto percentuale di essa corrisponda a un forte risparmio per la collettività: si valuta che a livello nazionale la recidiva è attestata circa all’80%. Diminuire la recidiva significa incidere su tutte le conseguenze relative: meno carceri, meno necessità di personale, (educatori, agenti ecc.) – all’interno; migliore qualità della vita e minor criminalità.
Quello della vulnerabilità è un aspetto che va sottolineato, perché al beneficio economico deve essere affiancato un adeguato accompagnamento del detenuto soprattutto nella prima fase di uscita dal carcere. E’ accertato che il primo anno dopo la liberazione è il periodo più importante e quasi sempre determinante per le scelte future del detenuto. Questo periodo può vanificare tutti gli investimenti e gli sforzi fatti fino a quel momento dal detenuto e da tutti i soggetti che lo hanno seguito, se non adeguatamente supportato. E’ in questo momento che si pongono le premesse e le condizioni per combattere efficacemente la recidiva e il lavoro è sicuramente una delle risposte principali.

Il ministro Alfano ha annunciato l’intenzione di procedere tramite corsia preferenziale con l’approvazione delle norme sulla "messa in prova" e sulla possibilità di scontare ai domiciliari le pene residue inferiori a un anno. Riteniamo queste proposte, da tempo sostenute dal volontariato, coraggiose e necessarie. Ovviamente l’aspetto abitativo diviene assolutamente dirimente, ma non da meno è quello lavorativo. Laddove c’è l’impossibilità di trovare una soluzione abitativa per i soggetti, si potrebbe prevedere la semilibertà in luogo degli arresti domiciliari. In questo senso diviene importantissimo il reperimento delle risorse lavorative, che potrebbero essere finanziate attingendo ai fondi per la Cassa delle Ammende. Per chi non ha possibili soluzioni, come ad esempio gli stranieri, si potrebbe pensare di destinare una parte di beni requisiti alla mafia oppure di immobili dismessi per realizzare cooperative agricole o di servizi, sempre finanziabili con la stessa cassa.
Creare veri percorsi occupazionali, intervenire con azioni per favorire l’inclusione incide sul problema della recidiva, sulla sicurezza dei territori, sulla qualità della vita delle comunità. È necessaria una sostanziale modifica del rapporto tra carcere e lavoro, anche per garantire alla pena quell’utilità sociale stabilita dall’Ordinamento Penitenziario. Ma per conseguire questo obiettivo sono necessari sia una sostanziale cambiamento delle condizioni dell’esecuzione penale sia un profondo cambiamento di funzione attribuita al carcere, troppo frequentemente occupato da soggetti di fasce disagiate per i quali altre risposte sociali andrebbero trovate.
Il futuro dipende anche dalle energie che tutti noi decidiamo di spendere su questi temi.

Elisabetta Laganà, presidente CNVG

 

Oggi: 18/07/2024
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