COMUNICATO STAMPA

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20/06/2011

Carcere e CIE

Solite storie di caccia al migrante, nel più puro Italian Style di segregazione. Portare a 18 mesi la permanenza nei CIE, giustamente definiti da Erri De Luca “fogne della coscienza, buchi dello spirito” significa condannare persone ad una prolungata galera in strutture disumane e senza garanzie giuridiche. Ancora una volta punire i poveri e le vittime! Vuol dire soddisfare, secondo l’immaginario di una certa parte politica, una opinione pubblica spaventata e vendicativa disposta ad attribuire il consenso, solo in cambio di rassicurazione repressiva, vuol dire rendere più duro l’apparato sanzionatorio per incapacità di gestire adeguatamente le emergenze sociali. Significa aggiungere altri capitoli al nuovo manifesto sul razzismo, promulgare propaganda pericolosa, antagonista di quella consapevolezza civile, che cerca invece di mobilitarsi intorno ai valori di accoglienza, tolleranza, asilo. Tra questo ulteriore vulnus all’umanità, tra le tragedie che quotidianamente si consumano nelle nostre carceri, che calpestano ogni forma di buonsenso e di pietà umana, ci sono già tutti gli elementi per poter scrivere la nostra storia di nuove colonne infami. I poveri migrano di struttura in struttura. Queste storie ci dicono come si possa perdere l’anima, pensando di agire nell’interesse della collettività, sentendosi garanti dell’ordine e della sicurezza. Quell’anima che viene tolta, in un attimo, a colui che varca la porta di sbarre o di filo spinato. O alla collettività, quando si legifera nella direzione dell’annullamento delle garanzie e dei diritti.

... trovato morto un altro detenuto…

A quanti morti siamo in carcere? Sono pochi, sono molti? Possono bastare? Ogni morto in carcere, ogni migrante nel CIE è una sconfitta collettiva. Pur tuttavia ciò accade.

Alla base, c’è una contraddizione politica profonda. Affermare di voler «combattere il sovraffollamento» costruendo nuove carceri è come sostenere di voler «costruire la pace» attraverso la corsa agli armamenti. Ovunque, il sovraffollamento è prodotto dalle scelte di una stessa classe politica che costruisce nuove carceri in nome della lotta al sovraffollamento. Il filo che lega i due fenomeni non è la «lotta alla criminalità», come affermano i vari ministri, visto che non esiste alcuna relazione tra i tassi di criminalità e quelli di carcerazione: è invece l’opzione a favore di politiche punitive in campo sociale e, conseguentemente, di politiche di sicurezza in campo penale. Per questa ragione si costruiscono nuove carceri anche se la metà dei reclusi è in attesa di giudizio, mentre si limita l’accesso alle misure alternative e si continua a imprigionare in massa migranti, tossicodipendenti, senza dimora. L’aumento dei posti letto ha sempre rappresentato una spinta alla crescita dell’incarcerazione: ha rafforzato l’identificazione della pena con le sbarre del carcere e, immobilizzando centinaia di milioni di euro negli edifici penitenziari, ha impedito il finanziamento di percorsi alternativi alla detenzione.

Ribaltare l’attuale concetto di sicurezza non è dunque un semplice slogan, è, al contrario, un concreto obiettivo, che si può raggiungere mettendo in moto un lungo processo di contrasto all’istituzionalizzazione, sia nelle città, che nei quartieri, che nei vari apparati e istituzioni.

Elisabetta Laganà, presidente CNVG

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