COMUNICATO STAMPA

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20/04/2011

Audizione alla Commissione Diritti Umani del Senato del 20 aprile 2011


Situazione degli Istituti di pena e risultati della legge “svuota-carceri” al 31 marzo 2011
 
Nelle carceri italiane sono detenute 67.600 persone, un numero pressoché invariato rispetto al mese precedente. Le donne in carcere sono 2.969, gli stranieri 24.834.
La capienza ufficiale degli istituti penitenziari è pari a 45.320 posti, quindi la popolazione detenuta risulta in sovrannumero di 22.280 unità. Il 13 gennaio 2010, giorno in cui fu dichiarato lo “stato di emergenza” delle carceri (Decreto Presidenza del Consiglio dei Ministri 13 gennaio 2010: “Dichiarazione dello stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale”), i detenuti presenti erano 65.067 a fronte di una capienza di 44.055 posti. A distanza di 15 mesi la condizione di sovraffollamento si è ulteriormente aggravata, nonostante la creazione di 1.265 nuovi posti, poiché i detenuti sono aumentati a un ritmo doppio, precisamente di 2.533 unità. Gli imputati sono 28.220, di cui oltre la metà (14.260) in attesa di primo giudizio. I condannati con sentenza definitiva sono 37.591, gli internati 1.698, di cui 1.535 sono “ricoverati” negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La legge 199/2010 (cd. svuota-carceri) è entrata in vigore il 16 dicembre 2010 e, in 3 mesi e mezzo, ha consentito l’uscita dalle carceri a fronte di una platea di potenziali destinatari stimata in 7.992 beneficiari. I suicidi in carcere sono il primo, più grave dramma da affrontare. Le condizioni durissime (in termini di sovraffollamento, condizioni igieniche difficili, mancanza di spazi vitali) non fanno che peggiorare questa sensazione di vuoto e disperazione. La ragione di tanti suicidi sta nella disperazione esistenziale in cui versano gli abitanti del carcere. Sono, in maggioranza, soggetti svantaggiati, che fuori spesso non hanno nemmeno un’identità. La durezza dell’impatto con il carcere li mette di fronte al vuoto che hanno davanti. Molti non reggono. Il sovraffollamento non è un’emergenza “naturale: “è il portato di precise scelte di politica criminale che vogliono che il carcere sia la prima risposta sanzionatoria Si pensi, ad esempio, alla legge “Ex Cirielli” che punisce più severamente la recidiva, ritardando inoltre l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi. Si favorisce la risposta carceraria rispetto alle misure alternative alla detenzione. Per questo il carcere è sovraffollato. I reati non aumentano, i detenuti si.


Diritti umani e carcere


Quando si parla di diritti umani, forse sarebbe utile ricordarsi che si sta parlando dei fondamentali bisogni di ogni individuo, spesso non rispettati nel carcere. Lo confermano le 1.499 sentenze e relative condanne, tutt’altro che simboliche, emanate nel corso del 2010 dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nei confronti dei paesi firmatari della Cedu, che l’ha istituita. Stando al rapporto per il 2010 dell’Osservatorio sulle sentenze Cedu presso la Camera dei deputati, in tema di diritti umani l’Italia è tra gli ultimi in classifica. Con 98 sentenze e rispettive condanne, l’Italia è preceduta da sole altre 5 maglie nere: la Turchia che figura in cima alla lista con 278 provvedimenti penali, seguita da Russia (217), Romania (143), Ucraina (109) e Polonia (107). Ben diversa la posizione delle nazioni vicine all’Italia e cioé Slovenia (6), Svizzera (11), Austria (19) e Francia (42). Per non dire della Danimarca che figura addirittura a quota zero. Oltre ai numeri, non meno degno di nota è il carattere delle violazioni che hanno portato l’Italia sul banco degli imputati a Strasburgo. Sul totale delle 98 sentenze con condanna, ben 61 accertano almeno una violazione delle norme Cedu, e di queste 50 riguardano l’inosservanza del diritto a un equo processo. Soltanto una invece è relativa alla violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’articolo 3 della Convenzione, che in sostanza proibisce la tortura. Ciò, nonostante che dal 2009 siano ormai centinaia i ricorsi giunti alla Corte europea che si appellano a detto articolo, in virtù di un precedente. Due anni fa infatti, l’Italia è stata condannata dai giudici di Strasburgo per aver costretto un detenuto a vivere in una cella che misurava meno di 3 metri quadri, il che costituirebbe un’ipotesi di tortura. Vista la situazione delle carceri italiane, dove si rileva nel complesso un tasso di sovraffollamento nella misura del 150%, ci sarebbe da aspettarsi una sequela pressoché interminabile di simili punizioni.  Dalla Germania, in questi giorni giunge invece la notizia di una sentenza storica,  emessa il 9 marzo dalla Corte Costituzionale tedesca, che da oggi obbliga le istituzioni penitenziarie del Paese a liberare un detenuto laddove la carcerazione non sia rispettosa dei diritti umani. Viene così anteposta la dignità della persona alla sicurezza, e si apre la strada alle “liste di attesa” per l’ingresso in carcere, già praticate in alcuni Paesi nordeuropei, Norvegia in testa. Senza dimenticare che nelle prigioni norvegesi e tedesche si parla addirittura di tasso di sotto affollamento, nel senso che nelle carceri di questi Paesi ci sono più posti letto che detenuti. Se per motivi di sovraffollamento non è possibile garantire una detenzione rispettosa della dignità umana, all’occorrenza i detenuti devono essere rilasciati. Così ha stabilito la corte. Il caso riguardava un ex detenuto, che per circa sei mesi ha vissuto 23 ore al giorno in una cella di 8 metri quadrati, con il gabinetto separato da un paravento ma senza aerazione. I giudici gli hanno dato ragione: le condizioni in cui ha vissuto giustificano la richiesta di un indennizzo, perché lesive della dignità umana. E in certi casi, hanno aggiunto, qualora non sia possibile garantire una sistemazione dignitosa, lo Stato ha il dovere “di rinunciare all’esecuzione della condanna”.La situazione della carceri in Germania è critica, ma non drammatica: il tasso di affollamento è inferiore al 90 per cento, cioè ci sono più posti che detenuti. Ma che impatto avrebbe una simile decisione in Italia, dove il sovraffollamento supera il 150 per cento e casi come questo rappresentano non l’eccezione, ma la regola? Con sconforto osserviamo lo scenario attuale: i pazienti negli OPG crescono. Vi sono ancora persone legate, in celle indecenti, come in un silenzioso olocausto. Non ci aspettavamo di vedere ancora aperto un OPG nel 2011. Questo carcere è ridotto a contenitore di tutti i disagi sociali, dai tossicodipendenti, agli immigrati, ai malati fisici e psichici. Il sovraffollamento crea grossi problemi di gestione degli istituti di pena, rendendo invivibile il carcere non solo per i detenuti, ma anche per gli stessi operatori penitenziari. In questa situazione è quasi impossibile assolvere alla funzione assegnata dalla Costituzione: la rieducazione dei detenuti. La mancata manutenzione degli istituti di pena, gravati da un persistente sovraffollamento, determina il progressivo deterioramento della vivibilità sia delle celle che di tutte le risorse disponibili e si configura come particolarmente grave anche in considerazione del fatto che le persone detenute e imprigionate sono sempre più frequentemente provenienti dagli strati più poveri e marginali della popolazione e, dunque, prive di supporti esterni in grado di dare risposta alle esigenze primarie di sussistenza (da quelle alimentari, al vestiario, all’igiene e cura personale). Di questa condizione generale va sicuramente imputata la responsabilità alla legislazione in materia di droghe, di recidiva e di immigrazione, all’uso eccessivo della carcerazione preventiva, all’inutilità delle carcerazioni di pochi giorni, alle nuove leggi orientate alla logica della "tolleranza zero", ma anche alla mancata applicazione di  quelle in vigore ( regolamento penitenziario del 2000, leggi Smuraglia, Gozzini, sulle detenute madri, passaggio dalla sanità penitenziaria al SSN). D’altronde, guardando i dati delle risorse fruibili, si scopre che ogni detenuto ha a disposizione beni e servizi per un totale di 13 euro al giorno. Tra le “voci di spesa” i pasti rappresentano la maggiore (3,95 euro al giorno), seguita dai costi di funzionamento delle carceri (acqua, luce, energia elettrica, gas e telefoni, pulizia locali, riscaldamento, età), pari a 3,6 euro al giorno. Poi ci sono le “mercedi dei lavoranti”, che sono i compensi corrisposti dall’Amministrazione penitenziaria ai detenuti addetti alle pulizie, alle cucine, alla manutenzione ordinaria. Sono poco più di 2 euro al giorno, ma sono fondamentali per garantire ai detenuti-lavoranti una piccola entrata che permette di alleviare le condizioni di vita in carcere. Il fabbisogno stimato per il funzionamento dei cosiddetti servizi domestici sarebbe di 85 milioni l’anno ma nel 2010 ne sono stati spesi soltanto 54: i pochi detenuti che lavorano si sono visti ridurre gli orari e, di conseguenza, nelle carceri domina la sporcizia e l’incuria.
E poi c’è il capitolo dedicato alla rieducazione, una spesa a dir poco irrisoria: alla voce “trattamento della personalità e assistenza psicologica” vengono investiti 2,6 euro al mese. Pari a 8 centesimi al giorno. Appena maggiore il costo sostenuto per le “attività scolastiche, culturali, ricreative, sportive”: 3,5 euro al mese, pari ali centesimi al giorno per ogni detenuto. L’attuale situazione è quindi descrivibile come prassi abituale di diritti negati, di mancanza di vere riforme. Nessun governo ha mai davvero ragionato  su una trasformazione del sistema penale e del ventaglio delle pene prevedendo un drastico ridimensionamento di quella carceraria. Bisognerebbe prevedere interventi capaci di fermare la generale tendenza alla penalizzazione e bloccare la crescita del ricorso al carcere. Per tentare di contrastare questa deriva la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha promosso lo scorso anno vari momenti di incontri pubblici, preannunciati da un “Appello per una mobilitazione del volontariato della giustizia” in cui si chiedeva di costituire immediatamente un “Piano sociale straordinario per le carceri” di sostegno al reinserimento sociale per coloro che escono o che potrebbero uscire dal carcere. La Conferenza domandava un pronto ed efficace intervento da parte di tutte le istituzioni per affrontare la grave situazione e aveva proclamato  lo stato di mobilitazione nazionale del volontariato impegnato nella giustizia. La mobilitazione ha realizzato, in varie regioni, forme di pacifica manifestazione fino all’autosospensione dal servizio poste in atto per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni preposte a trovare adeguate soluzioni al problema. Come volontariato nutrivamo pochissime aspettative sul numero di persone che realisticamente sarebbe uscito dalle carceri in virtù del decreto sulla detenzione domiciliare: un segnale troppo debole per un sovraffollamento così forte. La  cosiddetta legge svuota-carceri non solo sta incidendo in misura minima sulla condizione carceraria, ma  soprattutto non esprime quel doveroso coraggio che la disastrosa situazione delle carceri richiederebbe, quale una inversione di rotta della detenzione come unica pena  a favore di pene e provvedimenti  alternativi al carcere. Legge dove nessun investimento è stato pensato per incrementare il personale educativo e trattamentale. Questa situazione deve chiamare a raccolta tutti i soggetti coinvolti con la realtà del carcere. Anche l’ANM si è espressa  sulla necessità che si ritorni al carcere come “extrema ratio” e che vengano utilizzati “alcuni degli strumenti per il superamento della concezione pancarceraria della pena, con l’introduzione delle pene alternative, e la mitigazione delle restrizioni per i recidivi al godimento dei benefici penitenziari”. Ma è necessario che tutte le componenti del mondo giudiziario siano aperte al dialogo per tutelare i diritti e le garanzie dei cittadini privati della libertà. La CNVG ha sollecitato un tavolo di lavoro congiunto con il Governo, le Regioni e gli EE.LL., coordinato dall’Ufficio Rapporti con le Regioni del DAP,  Enti Locali  ed il Volontariato. Il tavolo, operativo da mesi, lavora per dare corpo e attuazione a livello locale alle “Linee Guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria” approvate nel 2008 che sottolineano le ragioni della necessità dell’inclusione e i danni prodotti dall’esclusione. Della commissione fanno parte le Regioni, il Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministero dell’Interno, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero della Solidarietà Sociale, l’ANCI, e il Volontariato. La domanda sostanziale è quindi perché non si possa lavorare tutti insieme per restituire concretamente una dimensione costituzionale della pena. La detenzione è un evento fortemente traumatico. La solitudine, la lontananza e l’impossibilità di avere contatti frequenti con i familiari e volontari sono spesso causa di crolli emotivi e di lacerazioni dei legami. Le relazioni e gli incontri con soggetti esterni al carcere sono così importanti perché rappresentano la possibilità di tenere attivi i propri legami e la propria storia ed hanno funzione di contrastare le conseguenze negative derivanti dalla privazione di contatti. Una circolare del DAP aveva evidenziato  l’attenzione sul drammatico fenomeno dei suicidi, chiedendo anche al volontariato di attivarsi con le proprie risorse. L’Amministrazione Penitenziaria,  nello specifico l’Ufficio Detenuti e Trattamento, aveva costituito un gruppo di lavoro con il Volontariato per la realizzazione di progetti finalizzati alla prevenzione dei suicidi. Il lavoro del gruppo ha poi prodotto una circolare diffusa in tutti gli istituti che promuove il ruolo del Volontariato come soggetto direttamente coinvolto per il contrasto di tali eventi tragici, chiedendo di incrementarne la presenza in tutti gli istituti, in particolare quelli più colpiti dal sovraffollamento. Già in precedenza erano sorti spontaneamente, in varie carceri, gruppi di ascolto gestiti dal volontariato, individuandone anche una funzione di promotori della salute, ed in particolare di salute mentale poiché il tempo carcerario inutilizzato può essere trasformato, attraverso l’incontro ed il dialogo, in un “tempo della parola” e quindi dell’ascolto, denso di potenziale terapeutico. Quanto sono ovvie le premesse, altrettanto dovrebbero esserlo le risposte. Invece, per motivi di scarsità del personale di custodia, alcune esperienze di gruppi di ascolto sono state soppresse. Ancora una volta sconcerta l’incongruenza tra l’enunciato e la pratica. Quanto al tema dell’affettività in carcere, va detto che il legislatore del 1975 ha preso un impegno davvero notevole con l’utenza detenuta, non mantenuto. Pensiamo solo al disposto dell’art 28 dell’ordinamento penitenziario, che impone “ particolare cura a mantenere, migliorare e ristabilire le relazione dei detenuti e degli internati con le loro famiglia” Addirittura, ci si aspetta che il carcere non solo non recida le relazioni affettive, ma le rinsaldi e le migliori. Ma come si fa a tenere in piedi i legami con 6\8 ore di incontro al mese e 40 minuti di telefonate? E poi bisogna riflettere sulla modalità degli incontri. In più, c’è il grande “omissis” della vita sessuale, o più in generale, dell’intimità della coppia, della fisicità degli incontri, di cui non si parla mai, nessun articolo ne fa menzione. In questo settore dobbiamo proprio concludere che già “a monte” ossia a livello legislativo, ci sono gravi lacune sul rispetto del diritto all’affettività e la prassi applicativa si discosta, come sempre, da una norma già piuttosto carente di contenuti. Bisognerebbe, a livello legislativo, aumentare le ore di colloquio visivo e telefonico. Una circolare emanata dal DAP lo scorso anno ( circ.GDAP-0177644) faceva intravedere un’apertura sul versante dell’affettività (p.7), anche in relazione al problema dei suicidi in carcere. Ma niente si è mosso in questo senso. Sul tema dei suicidi, andrebbero poi applicate le circolari, in particolare quella già citata, che indica testualmente “occorre profondere ogni sforzo affinché il processo di costante miglioramento della “normativa” interna e la conseguente riduzione del disagio della popolazione detenuta non vengano rinviati ai futuri prossimi risultati della realizzazione del “piano carceri”. Al contrario è opportuno, proprio in questo momento, dare un nuovo impulso a tale processo per superare le contingenti difficoltà e portare avanti il lavoro, da lungo tempo intrapreso, di umanizzazione della condizione detentiva” ( circ.GDAP-0177644). Ad un anno esatto dalla circolare i risultati non ci sembrano visibili, né ci pare che le normative contenute siano state applicate.


Quali soluzioni potrebbero portarci fuori da questa condizione di emergenza permanente?


In una materia come questa, che tocca corde sostanziali del diritto, non andrebbero espresse timidezze; bisognerebbe operare con forza sul fronte delle riforme  legislative e sulle politiche sociali; servirebbe una chiara azione riformatrice
Occuparsi di diritto penale non dovrebbe essere una prerogativa dei giuristi, perché il sistema giudiziario è sempre più il punto di snodo in cui si incrociano i nodi irrisolti delle politiche sociali e penali. Per invertire il senso di marcia in cui si sta procedendo, bisognerebbe pensare ad un diritto penale certamente efficiente ma mite,  ma soprattutto ad una interlocuzione tra le parti della società, tra le varie discipline sociali che restituiscano un vero posto ai problemi impropriamente convogliati nel diritto penale. La necessità di un totale riassetto del sistema sanzionatorio è quindi primaria. La riforma del sistema sanzionatorio dovrebbe porsi l’obiettivo di un diritto penale minimo, equo ed efficace. L‘inserimento di sempre nuove fattispecie penali che puniscono condotte per le quali altre soluzioni sarebbero più conformi ha contribuito in modo rilevante a determinare l’attuale stato della giustizia penale. L’ultima commissione di riforma del Codice Penale, presieduta da Pisapia, aveva elaborato proposte che considerano il sistema delle pene in una prospettiva di “diritto penale minimo”, peraltro convalidando parte dei contenuti e conclusioni a cui erano pervenuti i progetti delle commissioni Pagliaro, Grosso e Nordio, che avevano riflettuto in termini di umanizzazione e contenimento del carcere. Le proposte dovrebbero riguardare la modifica della legge sulle tossicodipendenze, della ex Cirielli, della Bossi-Fini, delle misure di sicurezza e prevedere forme come la messa alla prova, la mediazione penale, la giustizia ripartiva. Attraverso il succitato “Piano sociale straordinario per le carceri” bisognerebbe poi ridare slancio e possibilità alle misure alternative, drasticamente ridotte in questi anni. Bisognerebbe inoltre incidere sul problema tutto italiano della custodia cautelare. In Europa siamo fra quelli con le percentuali maggiori di giudicabili sul complesso dei detenuti. E poi affrontare seriamente il problema delle carcerazioni brevi: il 32% dei 90.000 circa arrestati nel corso di un anno con passaggio dal carcere resta detenuto per non più di tre giorni.
Occorre comunque pensare alla pena andando anche al di fuori della concezione italiana, e guardare ciò che avviene negli altri paesi europei, non solo per una più ampia articolazione del ventaglio delle pene. Andrebbero implementate le pene alternative al carcere con le sanzioni “sostitutive” delle pene detentive brevi, discrezionalmente concesse già dal giudice della cognizione (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria).
Un passo avanti, che potrebbe essere sviluppato, è stato fatto con la competenza penale del giudice di pace: pena pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità. Dunque della “pena carcere” spesso si può anche fare a meno (in Germania e Gran Bretagna le pene pecuniarie inflitte rappresentano la gran parte delle pene irrogate). E poi potenziare il ricorso all’ampliamento a molte ipotesi delittuose delle pene interdittive come pene principali, con esclusione del carcere. Le varie commissioni per la riforma del codice penale hanno già preso in considerazione questa prospettiva: si tratta di avere il coraggio di farvi ricorso in modo assai ampio. Sarebbe  indispensabile che la previsione codicistica metta a disposizione del giudice della cognizione  più tipi di pena in via alternativa: questo per tutti i reati. Ragionare quindi su una previsione alternativa di pene più ampia e coraggiosa di quella attuale, come criterio generale. Solo per i delitti più gravi dovrebbe essere prevista come necessaria la pena della reclusione. Inoltre sarebbe auspicabile una modifica dell'art. 4 bis ord. pen.
Prendiamo il problema della tossicodipendenza. Nella Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze solitamente il ministro di turno indica come necessario il potenziamento ed un più efficace utilizzo delle misure alternative alla detenzione al fine di facilitare i percorsi di cura e di riabilitazione. Proposito sempre dichiarato e sempre inattuato, dato che in carcere sono rimasti sempre numeri considerevoli di tossicodipendenti. Sarebbe più funzionale porre la questione stupefacenti nei termini della tutela della salute, per evitare di incrementare forme di marginalità e devianza che riempiono le carceri, sperimentare politiche diffuse di riduzione del danno ed evitare la penalizzazione di fatto dei tossicodipendenti. Progetti innovativi quale il DAPprima sono rimasti buone pratiche centellinate a piccoli numeri, irrisori rispetto l’ampiezza del fenomeno. I parametri economici imposti alle comunità terapeutiche dal Ministero scoraggiano la disponibilità agli ingressi agli arresti domiciliari dei soggetti, che in questo modo rimangono in carcere in attesa della concessione di altra misura.
Nel progetto Boato presentato alcuni anni fa ( mai approvato) le pene erano ridotte in particolare per i tossicodipendenti, oltre alla previsione di nuove misure (come la messa alla prova durante il processo, il cui esito positivo estingueva il reato) e per l’affidamento in prova per lo svolgimento di un programma terapeutico venivano tolti i limiti massimi di ammissibilità, per cui la misura valeva per tutte le pene da eseguire, ma l’ammissione doveva essere inizialmente in comunità residenziale. Il progetto riprendeva le proposte della Commissione La Greca presso il ministero della Giustizia, istituita per la redazione di un disegno di legge che traducesse le conclusioni della Conferenza nazionale per le tossicodipendenze di Napoli del 1997. Sono oggi almeno diecimila i tossico-dipendenti che potrebbero usufruire di misura alternativa sulla base di un programma da svolgere in comunità o presso il servizio pubblico, con un  notevolissimo abbattimento dei costi per l’amministrazione penitenziaria, a cui costano 3 volte tanto. Con lo stesso ammontare si  potrebbero inserire in comunità migliaia di detenuti tossicodipendenti attualmente in carcere, con notevole beneficio per il sovraffollamento  ma soprattutto, con enorme vantaggio terapeutico. Andrebbe predisposto immediatamente un progetto concreto di alternative alla detenzione per i tossicodipendenti in carcere, anche prevedendo l’utilizzo dei fondi della Cassa delle Ammende, attualmente “congelati” in previsione di essere illegittimamente utilizzati per il piano di edilizia carceraria.
L’istituto della messa alla prova “processuale” è prevista nel progetto di riforma Pisapia per i reati puniti con pena  diversa dalla detentiva o con pena detentiva non superiore a tre anni. Non sono previsti limiti od esclusioni in relazione alla tipologia dei reati o alla entità della pena edittale; riguarda, quindi, non solo gli illeciti minori ma ogni tipo di reato ed è prevista la possibilità di concessione sino a due volte. Il progetto di riforma prevede una seconda forma di messa in prova collegata alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. La messa alla prova sarà un terreno su cui sperimentare anche iniziative di mediazione penale.
L’istituto si configura quindi come una forma di “probation” applicabile nella fase giudiziale: si presenta, pertanto, con caratteri fortemente innovativi. La positività dell’esperienza maturata nel processo minorile fa supporre l’opportunità dell’estensione dell’istituto, con gli necessari aggiustamenti, anche al processo ordinario per gli imputati adulti.
Gli attuali tempi del processo penale evidenziano i vantaggi delle forme processuali di “probation”: sia sotto il profilo riparativo, per la maggiore efficacia di una condotta che segua in tempi brevi la commissione del reato; sia, più in generale, sotto i profili di deflazione, di riabilitazione, di prevenzione e contrasto alla recidiva. L’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato e non della sola pena.
La drammatica situazione in atto non può trovare risposte unicamente nell’edilizia carceraria che non potrà mai costituire l’unica soluzione al problema; ed inoltre sarebbe un’ulteriore occasione perduta  per compiere una scelta differente, finché siamo ancora in tempo.


Elisabetta Laganà, presidente CNVG


 

Oggi: 18/07/2024
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