COMUNICATO STAMPA

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24/04/2011

Sulle ultime morti in carcere

In un solo giorno, uno dei tanti che trascorrono in carcere, marcati dalla disperazione, 3 detenuti sono morti e 3 hanno tentato il suicidio. Terribile, agghiacciante aggiornamento del quotidiano computo che scandisce le giornate delle nostre galere. Morti per suicidio, droga, malattia. Impiccagioni tentate o riuscite, tagli alla gola.  Persone, per l’opinione pubblica, senza volto né nome. Considerati eventi critici per le statistiche.
Nelle carceri italiane la situazione sanitaria è drammatica, il diritto dei detenuti alla salute  è fortemente limitato o di fatto negato. Nelle carceri italiane l’assistenza sanitaria così come viene esercitata è un fattore di rischio e di pena aggiuntiva. Le nostre parole rischiano di fare la fine di queste morti invisibili, voci di qualcuno che grida nel deserto. Domani saranno cancellate, dimenticate. Come questi morti. Discorsi logori, fuori audience, temiamo, tra addetti ai lavori. Perché tutti giustamente si indignano quando si paventa l’attacco all’art. 1 della Costituzione, ed i titoli dei giornali divengono cubitali. Indignazione sacrosanta e legittima. Non altrettanto coralmente né mediaticamente espressa quando l’art. 27 comma 3 della stessa viene costantemente violato.
La frequente violazione dei diritti umani è confermata dalle 98 sentenze e rispettive condanne comminate dalla CEDU ( Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) all’Italia, preceduta in questo triste primato da soli altri 5 stati: Turchia, Russia, Romania, Ucraina e Polonia. Ma questi “crimini di pace”, come direbbe Basaglia, ancora non bastano a far produrre alla politica una seria riflessione sulla pena e sul modo di scontarla. Nel frattempo, dalla Germania, giunge invece la confortante notizia di una sentenza storica, emessa il 9 marzo dalla Corte Costituzionale tedesca, che obbliga le istituzioni penitenziarie del Paese a liberare un detenuto laddove la carcerazione non sia rispettosa dei diritti umani. Viene così anteposta la dignità della persona alla sicurezza, e si apre la strada alle “liste di attesa” per l’ingresso in carcere, già messe in atto in alcuni Paesi nordeuropei, Norvegia in testa. Senza dimenticare che le prigioni norvegesi e tedesche sono sotto-affollate, ci sono cioè più posti letto che detenuti. La Corte ha stabilito che se a causa del sovraffollamento non è possibile garantire una detenzione rispettosa della dignità umana, i detenuti devono essere rilasciati. Il caso riguardava un ex detenuto, che per circa sei mesi ha vissuto 23 ore al giorno in una cella di 8 metri quadrati, con il gabinetto separato da un paravento ma senza aerazione. I giudici gli hanno dato ragione: le condizioni in cui ha vissuto giustificano la richiesta di un indennizzo, perché lesive della dignità umana. E in certi casi, hanno aggiunto, qualora non sia possibile garantire una sistemazione dignitosa, lo Stato ha il dovere “di rinunciare all’esecuzione della condanna”. Se questa decisione fosse emanata in Italia, dove il sovraffollamento supera il 150% della capienza, che impatto avrebbe? Quindi, mentre negli altri paesi europei si apre la strada verso una giurisprudenza di contrasto alle politiche carcero-centriche, in Italia constatiamo solo la sconcertante e inaccettabile lentezza delle istituzioni nel procedere anche solo con le dismissioni dagli OPG; i cui ospiti, ancora talvolta legati, in celle spesso indecenti, come in un silenzioso olocausto, a 3 anni dal passaggio della riforma della sanità penitenziaria, anziché essere dismessi sono aumentati di 200 unità.
Il 10 marzo scorso è stata presentata dal ministro Alfano la riforma “epocale” della giustizia. Si è però verificata una gigantesca rimozione nel Governo: nessuno ha accennato alla riforma epocale sul carcere. Noi invece un’idea l’abbiamo. Nemmeno epocale, ma fattibile. Basata su pratiche già in uso in altri paesi.
Per invertire il senso di marcia in cui si sta procedendo, bisognerebbe pensare ad un diritto penale certamente efficiente,  ma soprattutto ad una interlocuzione tra le parti della società, tra le varie discipline sociali che restituisca un vero posto ai problemi impropriamente convogliati nel diritto penale.
Occorre pensare alla pena andando anche al di fuori della concezione italiana, e guardare ciò che avviene negli altri paesi europei, non solo per una più ampia articolazione del ventaglio delle pene. Andrebbero implementate le pene alternative al carcere con le sanzioni “sostitutive” delle pene detentive brevi, discrezionalmente concesse già dal giudice della cognizione (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria).
Un passo avanti, che potrebbe essere sviluppato, è stato fatto con la competenza penale del giudice di pace: pena pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità. Dunque della “pena carcere” spesso si può anche fare a meno (in Germania e Gran Bretagna le pene pecuniarie inflitte rappresentano la gran parte delle pene irrogate). E poi potenziare il ricorso all’ampliamento per molte ipotesi delittuose delle pene interdittive come pene principali, con l’esclusione del carcere. Le varie commissioni per la riforma del codice penale avevano già preso in considerazione questa prospettiva: si tratta di avere il coraggio di farvi ricorso in modo assai ampio. Sarebbe  indispensabile che la previsione codicistica mettesse a disposizione del giudice della cognizione  più tipi di pena in via alternativa; ragionare quindi su una previsione alternativa di pene più ampia e coraggiosa di quella attuale, come criterio generale. Solo per i delitti più gravi dovrebbe essere prevista come necessaria la pena della reclusione. Attraverso un “Piano sociale straordinario per le carceri”, richiesto dal Volontariato, bisognerebbe poi ridare slancio e possibilità alle misure alternative, drasticamente ridotte in questi anni.
Niente di epocale, quindi, ma la semplice attuazione di pratiche già in uso da altre parti.
Sul tema dei suicidi, andrebbero poi applicate le circolari, in particolare quella dello scorso aprile, che cita testualmente “occorre profondere ogni sforzo affinché il processo di costante miglioramento della “normativa” interna e la conseguente riduzione del disagio della popolazione detenuta non vengano rinviati ai futuri prossimi risultati della realizzazione del “piano carceri”. Al contrario è opportuno, proprio in questo momento, dare un nuovo impulso a tale processo per superare le contingenti difficoltà e portare avanti il lavoro, da lungo tempo intrapreso, di umanizzazione della condizione detentiva” ( circ.GDAP-0177644).
Ad un anno esatto dalla circolare i risultati non ci sembrano visibili, né ci pare che le normative contenute siano state applicate.
Di fronte ai problemi  della penalità, dobbiamo tornare a chiedere non solo a noi stessi ma anche alla cittadinanza, ai non addetti ai lavori, che idea abbiamo del carcere e dell’esecuzione penale, e se pensiamo che il carcere così com’è costituisca un valore in termini di tutela della sicurezza, come sembra sostenere il senso comune dominante. Larga parte dei nostri propositi e del nostro impegno futuro nasce da come risolveremo questo discrimine:  se riusciremo ad orientare ed informare un’opinione pubblica più ampia di quella che rappresentiamo. A dare corpo e voce a queste ulteriori morti. A resistere in questo confronto con le istituzioni, che talvolta sembra senza speranza, che porti a pene più umane, ad una vera riforma penitenziaria.
Accanto a questa battaglia, che è una battaglia politica e culturale di lungo periodo, bisogna avere la forza di riprendere quella dei diritti fondamentali della persona, diritti che valgono anche in regime di esecuzione penale.

Elisabetta Laganà
Presidente CNVG 
 

Oggi: 18/07/2024
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