NEWS/ARTICOLO

14/06/2019

“L’ergastolo ostativo non è una pena di morte in senso proprio, ma non ne è lontano”

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di Ornella Favero*

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza “Viola contro Italia”: “È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura”.

Stella L., studentessa di un liceo delle scienze sociali entrata in carcere con la sua classe per confrontarsi con le persone detenute: “Una delle cose che mi ha colpito di più è stata venire a confronto con l’idea e il concetto dell’ergastolo ostativo e con le persone che vivono tale realtà. L’ergastolo ostativo non è una pena di morte in senso proprio, ma non ne è lontano. Forse in effetti l’unica differenza tra la pena di morte ed un ergastolo ostativo è l’incognita della morte, che invece di essere programmata per un giorno fisso, avverrà naturalmente per tutti, ergastolo o meno.
Vorrei ringraziare in particolare i detenuti che ci hanno parlato, per averci offerto un incontro unico e di grande valore per la nostra vita. In un certo senso forse hanno contribuito a creare un futuro migliore e più sensibile a questi fatti, dato che i giovani di oggi che li hanno ascoltati saranno gli adulti del domani”
.

Se metto insieme le parole dei giudici della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e quelle di una studentessa che ha partecipato a un progetto in cui sono le persone detenute a portare la loro testimonianza, un motivo c’è: ed è che la Corte europea ha detto all’Italia quello che tanti nel nostro Paese non vogliono sentirsi dire, che l’ergastolo ostativo è disumano e degradante. Una verità che si può capire meglio se si decide di entrare in carcere e di vedere l’umanità delle persone rinchiuse, come ha fatto di recente la Corte costituzionale nel suo viaggio nelle carceri, e come fanno tanti studenti coinvolti in progetti di confronto vero con il mondo delle pene e del carcere.
Ma attenzione, non c’è nessun atteggiamento di sottovalutazione dei reati, in questo, né una mancanza di rispetto nei confronti delle vittime: al contrario, è molto meno rispettosa del dolore di chi ha subito un reato una pena, che trattando male gli autori di reato li fa sentire a loro volta vittime, di una pena in cui lo Stato mostra un volto umano e dà all’autore di reato una lezione di civiltà e di equilibrio. I ragazzi delle scuole questo lo capiscono, e sono disposti a mettere in discussione le loro certezze, soprattutto se hanno davanti detenuti che sanno assumersi le loro responsabilità, che non cercano giustificazioni ma raccontano un percorso di presa di coscienza vero e profondo.
Questa sentenza della Corte europea però non richiama solo il legislatore a rivedere quella legge, che rende possibile per gli ergastolani accedere ai benefici unicamente se collaborano con la Giustizia, ma sottolinea che se “la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all’ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici”, questa strada è in realtà troppo stretta. Nella sentenza si ricorda, infatti, che la scelta di collaborare non è sempre libera, per esempio perché alcuni condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari.
Quello che dovrebbe fare l’Italia quindi è agire "con una riforma della reclusione a perpetuità in modo da garantire la possibilità agli ergastolani di ottenere un riesame della pena". Questo, dicono i giudici della Corte europea, "permetterebbe alle autorità di determinare se durante la pena già scontata il detenuto ha fatto progressi tali sul cammino della riabilitazione da renderne ingiustificabile il mantenimento in prigione".
Ma qualcun altro dovrebbe forse essere richiamato alla propria responsabilità da questa sentenza: prima fra tutti l’Amministrazione penitenziaria. Perché se ci sono ancora più di 9000 persone detenute da anni, da decenni nei circuiti di Alta Sicurezza, non è forse anche per una inerzia dell’Amministrazione penitenziaria? Possibile che tra quelle 9000 persone quasi nessuna abbia fatto un percorso che la renda degna di essere declassificata dal circuito di Alta Sicurezza a una carcerazione un po’ più civile? Soprattutto una carcerazione che permetta a queste persone di confrontarsi davvero con la società, come succede a Padova, in una piccola sperimentazione che consente ai detenuti dell’Alta Sicurezza di partecipare a un progetto di confronto con le scuole, e le costringe, in un certo senso, a mettersi in discussione, a parlare del loro passato, a prendere le distanze realmente dalle organizzazioni criminali di appartenenza.
Tornano allora utili le parole del nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini “41-bis e Alta Sicurezza non devono essere tatuaggi indelebili nelle vite delle persone”: in realtà, succede ancora che le declassificazioni sono pochissime, e quello che le frena è che incidono tantissimo le informative delle Direzioni Distrettuali Antimafia, troppo spesso ferme alla fotografia del detenuto al momento dell’arresto e legate a formule stereotipate come quella che “non si possono escludere collegamenti con le organizzazioni di appartenenza”, mentre non incide quasi per nulla il percorso fatto dalla persona detenuta, la sua presa di distanza dalle organizzazioni criminali a cui apparteneva.
Per far capire che le Istituzioni sono davvero interessate al fatto che anche dal carcere si possa lottare contro la criminalità organizzata, bisogna allora cominciare a togliere quelle stesse persone dalle sezioni chiuse dell’Alta Sicurezza e permettergli di confrontarsi con la società, di sperimentarsi in percorsi di reinserimento veri.
Una persona che in carcere si impegna in un percorso di assunzione di responsabilità e di risocializzazione deve avere sempre una prospettiva possibile di libertà: questo ci dice la sentenza della Corte Europea “Viola contro Italia”, e questo deve richiamare tutti quelli che si occupano di carcere, dall’Amministrazione penitenziaria alla Magistratura di Sorveglianza, al Volontariato e al privato sociale a fare la loro parte, cioè a valorizzare per quanto possibile i percorsi di reinserimento anche degli ergastolani ostativi, che è l’unico modo oggi per richiamare il legislatore a fare il suo dovere, cioè a rivedere una legge che lascia ancora spazio, contro la nostra Costituzione, a una carcerazione disumana e degradante.
Un grazie va a tutti quelli che si sono adoperati per arrivare a questa sentenza, a partire da Davide Galliani, Professore associato di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano, e Andrea Pugiotto, Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara.
*Presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia





 

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